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L’importanza di tifare: Perchè amiamo così tanto lo sport?

TIFARE [dal gr. τϕος «fumo, vapore; fantasia; febbre con torpore»]: questo verbo è inizialmente utilizzato per indicare una malattia febbrile caratterizzata da uno stato di confusione mentale.
In senso figurato, si riferisce ad uno stato di eccitazione quasi “febbrile” con cui le persone sostengono le loro squadre e i loro idoli sportivi.
Così, il tifo, indica una passione travolgente e viscerale con cui si sostiene una persona o un gruppo sportivo.

Ora, immaginatevi questa scena…
Avete 10 anni e stringete tra le mani il biglietto per andare a vedere la vostra squadra allo stadio. Vi mettere le scarpe e seguite i vostri genitori. Fremete: è la prima partita che guardate dal vivo.
Ricordate il boato della folla all’entrata della squadra in campo, il petto che trema, le mani che continuano a sudare. Poi, mentre vi sedete sugli spalti, il profumo di popcorn si mescola con l’eccitazione nell’aria. Il campo verde, perfetto, sembra brillare sotto le luci dei riflettori, e voi vi sentite piccoli, ma parte di qualcosa di grande.

Forse qualcuno di voi l’avrà vissuta in prima persona, oppure avrà visto qualcuno viverla.

La domanda vien da sé: cosa ci porta ad amare così tanto lo sport e a legarci in modo viscerale ad una squadra o ad un/una atleta?

1. IL SENSO DI APPARTENENZA:
sentirsi parte di qualcosa di più grande. Indossare tutti la maglietta dello stesso colore, cantare lo stesso inno, alzare le braccia al cielo dopo una vittoria e sentirsi amareggiati dopo una sconfitta, insieme ad un gruppo di sconosciuti, è ciò che crea un legame profondo con un gruppo di persone, con cui si costruisce una vera e propria identità: siamo milanisti, siamo juventini, siamo.

2. LE EMOZIONI:
ogni sport scatena delle emozioni: più siamo legati alla squadra/atleta, più ci sentiamo parte e maggiore sarà l’intensità delle nostre emozioni. A livello psicologico, quando la squadra o l’atleta raggiunge un obiettivo importante, qualunque esso sia, c’è il rilascio della dopamina, un neurotrasmettitore che gioca un ruolo cruciale nelle esperienze di piacere e motivazione.Quando una squadra vince, il tifoso sperimenta un senso di liberazione e appagamento, mentre, quando la squadra perde, si rilasciano emozioni come rabbia, ansia, tristezza o frustrazione accumulate. In entrambi i casi, il tifo diventa un canale attraverso cui il tifoso può esprimere liberamente le sue emozioni!

3. SIMBOLI E RITUALI:
Come accennato, ogni squadra ha i suoi colori, i suoi gesti ricorrenti e il suo inno. Questi diventano veri e propri ancoraggi emotivi.  Simboli e rituali prima di una partita o un momento importante, servono, come una routine, a ridurre l’incertezza e a concentrarsi, creando così una “zona di comfort” in cui sentirsi appagati.

4. LO SPORT COME SPECCHIO DI UNA SOCIETA’:
è infine interessante, a mio avviso, come lo sport rappresenti lo specchio della nostra società, riflettendo e amplificando dinamiche culturali, politiche e sociali. Il tifo, infatti, rappresenta spesso anche le tensioni, le sfide e le aspirazioni dell’intera società.

La visibilità dei grandi eventi sportivi e le storie dei singoli atleti sono spesso un riflesso di dinamiche come la disuguaglianza, i conflitti e i successi sociali: prendiamo ad esempio Muhammad ali, uno dei più grandi pugili di tutti i tempi. È diventato, negli anni 60, simbolo di resistenza contro l’oppressione raziale. Infatti, nel 1967 si rifiutò di prestare servizio militare durante la Guerra del Vietnam. Questo lo portò alla sospensione dalle competizioni, diventando così un simbolo di opposizione alla guerra e al razzismo.

Lo sport, quindi, è molto di più che un gioco: è un linguaggio universale capace di unire persone e accendere passioni. Tifare è vivere, sentire e appartenere. Perché, alla fine, ogni volta che diciamo “noi” parlando di una squadra, stiamo raccontando della squadra ma anche e soprattutto di noi stessi.

Tamara Sciuto

Perfezionismo e Mentalità vincente: una riflessione tra limiti e opportunità

Il perfezionismo, spesso considerato una virtù, può trasformarsi in un’arma a doppio taglio. Esigere standard elevati e sforzarsi di raggiungerli può stimolare la crescita personale, ma quando questi obiettivi diventano irrealistici o radicati nel timore del fallimento, si rischia di cadere in un circolo vizioso di ansia e insoddisfazione.

La distinzione tra perfezionismo sano e perfezionismo disfunzionale, descritta da Hamacheck (1978), evidenzia come solo il primo consenta di accettare l’errore come parte del processo di apprendimento. Il perfezionismo sano, infatti, si manifesta come una ricerca dell’eccellenza che motiva a migliorarsi continuamente, senza che l’errore diventi una minaccia per la propria autostima. Chi abbraccia questo approccio vede nei fallimenti momenti di riflessione e crescita, piuttosto che ostacoli insormontabili.

Il perfezionismo disfunzionale, invece, è alimentato dalla paura costante di sbagliare e dall’esigenza di dimostrare il proprio valore attraverso risultati impeccabili. In questo stato mentale rigido, l’errore è vissuto come un fallimento assoluto, capace di innescare ansia e autocritiche severe. Si entra così in una logica “tutto o niente”, dove ogni risultato è considerato un successo completo o un disastro totale, impedendo di trarre soddisfazione anche dai traguardi raggiunti.

Questo stesso concetto, ad esempio, è centrale nella Mamba Mentality di Kobe Bryant.

Il leggendario cestista ha incarnato l’idea di focalizzarsi sull’obiettivo presente, vivendo ogni sfida come un’opportunità per superare i propri limiti. Per Kobe lavorare duramente significava studiare ossessivamente i dettagli, trasformando ogni errore in una lezione per perfezionare la propria strategia. Questa mentalità, che si spinge oltre il concetto di motivazione, invita a dedicarsi completamente al proprio percorso, senza paura di affrontare fallimenti come parte del processo.

Riconoscere i rischi del perfezionismo disfunzionale, come il pensiero dicotomico “successo o fallimento”, è fondamentale per evitare un blocco emotivo e una svalutazione di sé. Al contrario, adottare una visione orientata al miglioramento continuo, accogliendo il fallimento come spinta al cambiamento, può trasformare il perfezionismo in una risorsa potente.

 

E tu, come vivi il rapporto con gli errori e le aspettative? Forse è il momento di fermarti un istante e chiederti: gli standard che ti poni alimentano la tua crescita o ti imprigionano nella paura di non essere all’altezza? Accogliere una mentalità che valorizzi il processo, e non solo i risultati, significa trasformare ogni passo, anche quelli incerti, in un’opportunità per migliorare.

Abbracciare gli errori significa accettare che la strada verso l’eccellenza passa attraverso la capacità di sperimentare, sbagliare e rialzarsi più forti. Per questo, è fondamentale dotarsi di strategie che aiutino a vivere il perfezionismo in modo costruttivo, ad esempio:

  1. Ridefinisci l’errore: inizia a considerarlo come parte integrante dell’apprendimento. Chiediti: “Cosa posso imparare da questa esperienza?” anziché concentrarti solo su ciò che non è andato come previsto.
  2. Focalizzati sul progresso, non sulla perfezione: annota i miglioramenti raggiunti, anche se piccoli, e celebra i tuoi passi avanti, invece di aspettarti sempre risultati impeccabili.
  3. Stabilisci obiettivi realistici: suddividi i tuoi traguardi in obiettivi più piccoli e raggiungibili, per evitare la pressione di dover eccellere subito in tutto.
  4. Allenati alla flessibilità mentale: lavora per ridurre il pensiero “tutto o niente”. Impara a valutare i tuoi risultati su una scala di gradazioni, apprezzando i successi parziali.
  5. Crea uno spazio sicuro per l’autocritica costruttiva: quando valuti le tue prestazioni, fallo con gentilezza. Concentrati su ciò che hai fatto bene e su cosa puoi migliorare senza svalutarti.
  6. Circondati di supporto positivo: coltiva relazioni con persone che sostengano la tua crescita senza giudicarti, ma che siano pronte a darti un feedback costruttivo.
  7. Sperimenta senza paura del giudizio: datti il permesso di provare, anche quando il successo non è garantito. L’apertura all’esperienza è un potente alleato per superare le barriere del perfezionismo disfunzionale.

Inizia oggi con un piccolo passo: scegli un’attività che ti mette alla prova, anche se temi di non riuscire farla perfettamente. Affrontala con curiosità, vedendola come un’occasione per imparare e scoprire nuove possibilità. Lascia che ogni errore diventi una tappa del tuo percorso di crescita e osserva come cambia il tuo modo di vivere l’imperfezione.

Buon allenamento!

Federica Cominelli

Il valore di una doccia

La mia sveglia suonava spesso alle 4:30. Acqua fresca sul viso, pantaloncini e maglietta indossati in fretta, calzini e scarpe allacciate. Uscivo di casa, il suono della serratura che si chiudeva dietro di me, mentre un’alba timida si preparava a svelare un’altra lunga giornata.

“I primi 2 km mentono; lascia fare al tuo corpo quello che sa fare meglio”, mi ripetevo, soprattutto quando la tentazione di tornare a casa si faceva insistente. Ma poi, con il sole che iniziava a illuminare la strada, un sorriso si allargava sul mio volto: era un momento intimo, un dialogo profondo fra la mia mente, il mio corpo e la natura che mi circondava. Un passo dopo l’altro, il ritmo si intensificava e i chilometri scorrevano, alcuni giorni più facilmente di altri. Negli ultimi due mesi di preparazione per il campionato del mondo di Ironman, gli allenamenti erano diventati una sfida continua di auto-controllo, perseveranza e disciplina.

Indipendentemente da come andassero le sessioni mattutine, ricordo con vividezza il momento che seguiva la fatica: la doccia. Aaaa che meraviglia! Sebbene sia una pratica igienica e sociale, in quel momento, per me la doccia assumeva un significato speciale: era un rituale di gratitudine, verso il mio corpo che mi permetteva di inseguire le mie passioni, e verso la mia mente, che mi faceva saltare giù dal letto alle 4:30 del mattino. La doccia dopo l’allenamento era per me un abbraccio alla fatica, ai chilometri corsi, al riconoscere l’impegno per raggiungere i propri obiettivi.

La gratitudine, spesso trascurata, è un sentimento incredibilmente potente: riconoscere gli allenamenti impegnativi, i sacrifici fatti e il supporto ricevuto da allenatori, amici e familiari ci aiuta a comprendere il valore del nostro percorso. Questa consapevolezza non solo allevia la pressione legata al risultato, ma ci permette anche di gestire meglio lo stress e di aumentare la nostra fiducia, preparandoci ad affrontare con determinazione le sfide di una gara sportiva o della vita.

L’invito è quindi di creare un momento in cui stringerti forte prima di una competizione per te importante, dopo un allenamento difficile, o quando stai attraversando un momento pieno di sfide: riconosci quanta strada hai già fatto, al di là di quanto sarà ancora lungo il viaggio.

Giada Cananzi

Vivere tra Sport e Like. La Sfida della Visibilità per gli Atleti

Nel mondo iperconnesso di oggi, un atleta non si limita più a vincere gare: vive sotto i riflettori dei media 24 ore su 24. Questa visibilità gioca un ruolo cruciale nella vita di ogni sportivo, infatti, i social sono sia il mezzo principale per la promozione di brand e messaggi, ma sono anche motivo di forti critiche e stress. Partendo dall’esempio di diversi sportivi, proveremo a capire quanto i social impattino nella loro routine e performance. I casi di Gianmarco Tamberi che aggiorna i suoi fan fino a sette volte in un solo giorno di gara, e di Naomi Osaka che si disconnette completamente dai social per mantenere la concentrazione, ci suggeriscono che la relazione tra sportivi e visibilità pubblica sembra rivelarsi un’arma a doppio taglio.

 

Il primo nome che viene in mente, quando si parla di sport e social, è sicuramente Cristiano Ronaldo. Infatti, possiede il profilo Instagram più seguito al mondo, con oltre 500 milioni di follower, CR7 non è solo una star del calcio, ma un vero e proprio brand globale. La sua capacità di curare meticolosamente la sua immagine sui social gli ha permesso di creare una vera e propria azienda il campo da gioco, collaborando con marchi internazionali e ora promuove i suoi prodotti brandizzati CR7, che vanno dall’abbigliamento, come intimo e materiale sportivo, fino a profumi e prodotti per la casa.

 

Nel mondo del tennis invece, possiamo citare due episodi recenti e radicalmente opposti. Queste due posizioni mostrano chiaramente come i social media possano influenzare le carriere degli atleti, sia in modo positivo che negativo. Da una parte c’è Naomi Osaka, che ha scelto di prendersi una pausa dai social media per concentrarsi meglio sul suo gioco e sulla sua salute mentale. Nel 2021, la tennista ha fatto notizia quando ha deciso di ritirarsi dal Roland Garros dopo aver rifiutato di parlare con i media, sottolineando l’impatto che la pressione e la i riflettori puntati hanno avuto su di lei. Questa scelta coraggiosa ha portato a un dibattito pubblico sulla salute mentale degli atleti, mettendo in evidenza quanto sia importante per loro allontanarsi dalle pressioni esterne e ritrovare la serenità necessaria per affrontare le sfide in campo. Osaka ha capito che, per poter dare il massimo nel tennis, doveva anche prendersi cura di sé, liberandosi dal rumore e dalle distrazioni.
Dall’altra parte, abbiamo Nick Kyrgios, che, dopo essersi infortunato durante la stagione estiva del 2023, ha trovato un nuovo modo per far parlare di sé. Invece di utilizzare questo tempo lontano dal campo per riflettere, ha cominciato a sfruttare la sua visibilità sui social media per alimentare polemiche. Non ha esitato a criticare diversi sportivi, tra cui Jannik Sinner, mettendo in discussione non solo l’atleta ma anche la sua persona: polemizzando sul caso di doping e la sua relazione. Questa scelta ha dimostrato come Kyrgios utilizzi la sua piattaforma per rimanere rilevante, provocando e generando controversie, rendendo evidente il divario tra chi cerca di mantenere la propria concentrazione sportiva e chi usa la visibilità per alimentare rivalità e tensioni.

 

In Italia, un caso emblematico è quello di Gianmarco Tamberi, campione olimpico di salto in alto alle Olimpiadi di Tokyo. Ha sfruttato i social media per promuovere la sua immagine e condividere momenti significativi della sua vita e della sua carriera. Tuttavia, alle recenti Olimpiadi di Parigi, non è riuscito a confermare il suo successo e ha subito forti critiche sui social. Molti lo hanno criticato, accusandolo di pensare troppo ai social, pubblicando anche sette post il giorno della gara. Ma in realtà, stava affrontando un problema ben più serio: soffriva di calcoli renali, un dolore insopportabile che l’ha costretto al ricovero prima della competizione. Questa condizione ha chiaramente compromesso la sua forma fisica e, quindi, la sua performance. Nonostante questo, molti hanno dato la colpa alla sua attività online, ignorando completamente il suo stato di salute. Invece di ricevere supporto, ha ricevuto solo critiche.

 

Questa situazione fa riflettere sul potere dell’esposizione sui social media. Mentre da una parte amplificano le vittorie e il potere mediatico degli atleti, dall’altra creano una pressione enorme. Gli sportivi con un’altissima visibilità, proprio come Tamberi, devono gestire le aspettative e i giudizi del pubblico, che influenzano e minano sia le loro prestazioni, sia la loro vita personale.

 

In conclusione, le esperienze di Naomi Osaka, Gianmarco Tamberi e Cristiano Ronaldo mettono in luce le diverse sfide e strategie che gli atleti affrontano nell’era dei social media. Chi ha saputo trasformare i social in un potente strumento per costruire il suo brand, dimostrando come la visibilità possa essere utilizzata strategicamente per promuovere. Oppure, chi ha vissuto la pressione della visibilità, trovandosi a dover affrontare critiche anziché supporto, spingendo molti sportivi al completo abbandono dei media.
Tutti questi casi sottolineano l’importanza di un approccio equilibrato e consapevole nei confronti della fama e della pressione, evidenziando la necessità di un ambiente di supporto che consideri le fragilità umane di tutti gli atleti.

 

L’illusione di una connessione diretta con i fan può diventare un’arma a doppio taglio. Gli atleti pagano un prezzo alto per la visibilità e il successo. È fondamentale che la società e i tifosi comprendano il peso di questa esposizione e creino un ambiente più supportivo, che consideri anche le fragilità umane degli atleti.

 

Che si tratti di un’opportunità o di un ostacolo, l’esposizione mediatica è ormai parte integrante della vita di ogni atleta. La vera sfida sta nel trovare un equilibrio: sfruttare il potenziale dei social media per crescere, senza farsi schiacciare dal peso della costante visibilità.

 

Federico Cesati

Cultura dell’alibi: Quando non succede quello che voglio

E’ il momento, il giorno tanto atteso è arrivato. Mi sveglio, seguo la mia routine e oggi mi sento sicura/o di me. Entro in campo e faccio un check-up interno delle mie sensazioni: fisicamente mi sento in forma, mentalmente pronta/o e motivata/o ad affrontare la sfida. Tutto sembra essere al posto giusto, ma ad un certo punto qualcosa cambia. L’energia comincia a calare, e nella mia testa inizia a farsi strada un pensiero insistente: “Non sta funzionando, non sta andando come previsto, voglio solo andare a casa.”

Il corpo inizia a tradirmi: la caviglia, da poco guarita, inizia a fare male, un senso di nausea mi assale. Penso subito: “Sarà che ho dormito poco? Sarà l’umidità? O forse è stata la colazione?” Le gambe diventano pesanti, il respiro si accorcia, il battito accelera, e, nonostante l’allenamento, mi sento stanca/o.

Dentro di me emerge una domanda che si fa sempre più forte: “Perché sta succedendo a me? Perché gli altri sembrano così tranquilli e al top?” E, come spesso accade, iniziano le autocritiche: “Ti sei sopravvalutata/o, non sei all’altezza. Devi allenarti di più.”

Sono lì, di fronte all’avversaria/o, ma soprattutto di fronte a me stessa/o. Mi trovo davanti ad una scelta: come reagire? So cosa avrei bisogno di fare, vorrei incoraggiarmi, ma qualcosa dentro di me mi blocca. Invece di accettare la situazione, comincio a cercare alibi: “Fa troppo caldo, ci sono troppe persone, le gambe non rispondono, la mia mente è invasa da pensieri incontrollabili.” Provo a dare la colpa agli altri, ma non funziona, perché so che la responsabilità è mia.

Dove posso trovare la forza e il coraggio per mettere in discussione tutto? Per accettare che la situazione non sta andando come previsto? Nella mia testa, avevo immaginato ogni dettaglio, avevo pianificato tutto, ma la realtà è diversa: perché?

 

L’alibi nello sport e nella vita: il bisogno di controllo

La situazione che ho appena descritto rappresenta un esempio di quella che viene definita “cultura dell’alibi” nello sport. Spesso, quando le cose non vanno come si vorrebbe, si tende a cercare dellescuse esterne per giustificare il disagio che si sente o il calo di performance. Quante volte, di fronte ad una difficoltà, la prima reazione è cercare cause esterne?

La verità è che è molto più facile dare la “colpa” a qualcosa o qualcuno piuttosto che guardare dentro di sé e assumersi le proprie responsabilità.

In realtà, la cultura dell’alibi è un meccanismo difensivo che si utilizza per proteggere la nostra autostima. Quando ci si trova in una situazione di stress, come una competizione sportiva, il cervello entra in “modalità protezione”. Invece di affrontare direttamente la sfida, si cerca di spostare l’attenzione su fattori che si ritengono essere fuori dal nostro controllo. Questo permette di evitare l’ammissione di un fallimento personale, ma allo stesso tempo impedisce di crescere e di imparare dall’esperienza.

Superare l’alibi e accettare l’imprevisto

Per uscire dalla cultura dell’alibi, è necessario sviluppare la capacità di accettare l’imprevisto e le difficoltà come parte integrante del processo di crescita sportivo (e della vita in generale). L’autoconsapevolezza è la chiave: essere in grado di riconoscere i propri limiti, ma anche le proprie risorse, permette di affrontare le sfide con maggiore serenità.

Il focus dovrebbe spostarsi dal controllo esterno a quello interno per chiedersi: “cosa posso fare qui ed ora per gestire e migliorare la mia performance?”

Federica Cominelli

Perché “Bravo!” Fa Bene: La Cultura del Riconoscimento nello Sport

Immagina la scena: sei in palestra, o magari sul campo di gara, hai dato tutto te stesso e, alla fine dell’allenamento o della competizione, qualcuno ti dice “Bravo!”. Sembra una cosa semplice, vero? Eppure, quel piccolo gesto, quelle poche lettere, possono avere un impatto incredibile sulla tua motivazione, sul piacere di fare sport e sul tuo impegno costante.

Questo tema e’ semplice ma molto importante nello sport e nella vita: la cultura del riconoscimento. Che tu sia un atleta professionista o semplicemente ami il movimento nel tempo libero, sentirsi apprezzati può fare una grande differenza.

Un “Bravo” non e’ mai sprecato. Che tu abbia dato il meglio di te in una maratona o fatto semplicemente una serie di piegamenti, il riconoscimento è fondamentale, vale sempre. Non sto parlando solo di premi o medaglie, ma di un semplice “Bravo!”. Riconoscere uno sforzo, piccolo o grande che sia, genera una spinta emotiva. È come ricevere una mini-ricarica di energia mentale che ti dice: “Stai facendo bene, continua così!”.

Essere riconosciuti dagli altri ci fa sentire visti, impotanti, e questo è uno dei fattori più potenti nella motivazione. Quando un allenatore, un compagno di squadra o anche solo un amico ti dice che hai fatto un buon lavoro, la tua mente associa lo sforzo all’appagamento emotivo. È come se il tuo cervello pensasse: “Ok, fare fatica porta a qualcosa di positivo”. Ed ecco che, quasi senza accorgertene, sei più propenso a metterci lo stesso impegno la prossima volta… se non di più!

Non bisogna limitarsi al riconoscimento post gara o a fine allenamento. In molti sottovalutano quanto possa essere prezioso anche prima di una competizione o di una sessione importante. Dire “Bravo!” o “Hai lavorato bene fin qui, continua così!” prima di una gara aiuta a entrare nella giusta mentalità. Un incoraggiamento pre-gara può ridurre l’ansia, aumentare la fiducia e preparare la mente per affrontare lo sforzo con il giusto spirito. Al contrario, il post gara è il momento perfetto per tirare le somme e fare un bilancio. Anche quando il risultato non è dei migliori, un riconoscimento per l’impegno è cruciale. Ricorda: non si vince sempre, ma si può sempre fare del proprio meglio. Apprezzare l’impegno è il primo passo per migliorare.

La cultura del riconoscimento aiuta a costruire un ambiente sportivo sano e positivo. Se fai parte di una squadra, ad esempio, dire “bravo” ai tuoi compagni aiuta a creare un clima di supporto reciproco. Più il gruppo è unito e si apprezza a vicenda, più aumentano l’ingaggio e il piacere di allenarsi e competere insieme.

Dire “Bravo!” non significa solo premiare i successi, ma anche incoraggiare lo sviluppo, la crescita. Anche nei giorni in cui senti di aver fatto fatica e di non aver raggiunto il tuo massimo potenziale, il riconoscimento aiuta a concentrarsi sul progresso. Ogni passo avanti, anche piccolo, è un traguardo. Ricorda: la crescita nello sport è un percorso, non una destinazione.

Ti invito, la prossima volta che finisci un allenamento o una gara, a regalare un “Bravo!” a qualcuno. Non solo a te stesso, cosa fondamentale da inserire nella propria pratica quotidiana,ma anche agli altri. Ti accorgerai di come, piano piano, si creerà un circolo virtuoso di positività, motivazione e impegno. Lo sport diventa più divertente, e i risultati arrivano prima di quanto pensi.

Quindi, Bravo! anche a te che hai letto fino a qui. Ora vai là fuori e goditi il piacere di fare sport con un sorriso!

 

Sandro Anfuso

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