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Costruire la resilienza un passo alla volta

Nel mondo dello sport, pochi ambiti offrono una finestra così potente sulla resilienza umana quanto le competizioni di ultra-resistenza. Parliamo di eventi che spingono corpo e mente ben oltre i confini della fatica: lo Spartathlon in Grecia richiede agli atleti di correre l’equivalente di 6 maratone in 36 ore; la Terra Australis Bike Epic è una competizione di circa 6000km che porta i ciclisti lungo l’intera costa orientale del continente; i concorrenti dell’Iditarod Trail Invitational è un’ultra maratona che dura fino a 30 giorni in Alaska, e numerosi altri eventi per il mondo.

Negli ultimi decenni, la partecipazione a questi eventi è aumentata esponenzialmente: solo in Nord America, il numero di persone che hanno completato un’ultra maratona è passato da 650 nel 1980 a oltre 79.000 nel 2017 (1). Ma cosa spinge sempre più atleti verso queste sfide estreme? E, soprattutto, cosa ci insegnano sull’essere umani?

Abitare la fatica

Robin Harvie, in The Lure of Long Distances, ricorda che il termine “atleta” deriva dal greco antico e significa “colui che lotta, che soffre”. Per molti ultra-atleti, la sofferenza non è un ostacolo, ma un elemento da esplorare: un’occasione per interrogarsi sul proprio senso di esistere, sulle proprie risorse mentali, sulla relazione tra dolore e il suo significato. In queste gare, resistere significa spesso procedere un passo alla volta, in un contesto dove gioia e fatica coesistono. È proprio questa convivenza, a tratti paradossale, che alimenta la motivazione profonda e permette agli esseri imani di sopportare ciò che è apparentemente insopportabile. La sensazione che “la gara non finisca mai” è comune tra chi affronta lunghi eventi di endurance. Questa distorsione del tempo somiglia a quella vissuta da chi vive momenti di profonda sofferenza psicologica: un’esperienza sospesa, dilatata, in cui ogni minuto sembra interminabile (2).
Allenarsi alla fatica significa anche sviluppare strategie cognitive e mentali per “stare dentro” queste sensazioni, senza esserne sopraffatti. L’ambiente gioca un ruolo chiave: la natura, i paesaggi, la luce dell’alba o un cielo stellato diventano risorse mentali. Emozioni di trascendenza collocano il dolore e la fatica in un contesto diverso (3). Sperimentare uno stato di elevazione in un momento di profondo sfinimento ricorda che lampi di pura felicità possono sorprenderti anche quando le cose sembrano più desolate.

La chimica della resilienza

Nel 2015, durante la Yukon Arctic Ultra, gli scienziati del Center for Space Medicine and Extreme Environments di Berlino (4) analizzarono il sangue degli atleti: rilevarono livelli altissimi di irisina, un ormone prodotto durante l’attività fisica. Oltre a facilitare il metabolismo dei grassi, l’irisina agisce sul cervello stimolando il sistema della ricompensa e migliorando l’umore. Questo ormone, come altre miochine, proteine rilasciate dai muscoli durante l’esercizio, dimostra che il movimento non agisce solo sul corpo, ma anche sulla mente. Ogni passo, ogni contrazione muscolare, invia segnali biochimici al cervello, rafforzando la resilienza (5). E non serve attraversare l’Artico per beneficiarne: ogni attività fisica, se svolta con regolarità, stimola questi processi.

Il triangolo corpo, mente e relazione

Nonostante l’apparente individualità delle gare di ultra-endurance, nessuno sente di essere completamente da solo: molti atleti si sentono rincuorati semplicemente sapendo che ci sono altri partecipanti anch’essi là fuori, da qualche parte, di fronte ai propri demoni. L’idea che “non sei l’unico” ad affrontare quella sfida, fisica e mentale, diventa una fonte potente di sostegno emotivo (6).
Il dolore condiviso crea legami profondi. Studi antropologici dimostrano che le esperienze difficili vissute collettivamente generano coesione: diventiamo “famiglia” nei momenti in cui siamo vulnerabili, non in quelli in cui sembriamo invincibili (7). L’ultra-endurance è un laboratorio per comprendere come il corpo, la mente e le relazioni si intrecciano nella gestione della fatica. Saper tollerare la difficoltà, accettare la vulnerabilità e cercare il significato anche nella sofferenza sono abilità che ogni atleta, e ogni persona, può allenare. Non necessariamente su un sentiero ghiacciato in Alaska, ma ogni giorno, nella propria routine (8).

Le esperienze degli atleti di ultra-endurance ci insegnano che la resilienza non nasce solo dal talento o dalla forza fisica, ma da una pratica costante: quella di abitare la fatica e restare presenti nel discomfort. Che tu stia affrontando una gara estrema o una sfida personale nella vita quotidiana, i meccanismi sono sorprendentemente simili: si va avanti un passo alla volta, si impara a convivere con l’incertezza e si costruisce la propria forza mentale anche grazie alla connessione con gli altri.

Referenze

1. http://realendurance.com/summary.php

2. Doloress A. Christensen (2017), “Over the mountains and through the woods; Psychological processes of ultramarathon runners”, Spingfield College

3. Karen Weekes (2004), “Cognitive coping strategies and motivational profiles of ultra- endurance athletes”, Dublin City University.

4. Robert H. Coker et al. (2017), “Metabolic responses to the Yukon Arctic Ultra: Longest and coldest in the world”, Medicine and Science in Sport and Exercise, 49 (2), 357-362.

5. Judit Zsuga et al. (2016), “FNDC5/irisin, a molecular target for boosting reward related learning motivation”, Medical Hypothesis, 90, 23-28.

6. 7. “Over the mountains and through the woods”, Christensen. Dimitris Xygalatas (2014), “The biosocial basis of collective effervescence an experimental anthropological study of a fire-walking ritual”, Fieldwork in Religion, 9 (1), 53-67.

8. Doug Anderson (2001), “Recovering humanity: Movement, sport, and nature”, Journal of the Philosophy of Sport, 28 (2), 140-150.

 

Giada Cananzi

Correre per connettersi: come l’”euforia del corridore” migliora il nostro benessere sociale

La sensazione di “euforia del corridore” (runner’s high) è da tempo un mistero affascinante. Originariamente descritta nel 1855 dal filosofo Alexander Bain (1), questa sensazione di felicità intensa è stata paragonata a un’estasi simile a quella di Bacco, il dio romano del vino. Il corridore e triatleta Scott Dunlap (2) riassume così la sensazione che prova quando corre: “lo equiparerei a due vodka Red Bull, tre ibuprofene, più un biglietto della lotteria vincente da 50 dollari in tasca”.

Ma non si tratta solo di corsa: ogni attività fisica prolungata che aumenti il battito cardiaco, come camminare, nuotare, danzare o praticare yoga, può suscitare questo stato di benessere.

Qual’è il significato di questa ricompensa? La teoria più recente sull’euforia del corridore è piuttosto audace: la nostra capacità di sperimentare questo tipo di euforia sarebbe legata alle vite dei nostri antenati che erano cacciatori e raccoglitori. Lo stato neurochimico che rende la corsa gratificante in origine poteva essere una ricompensa per sostenere la caccia e la raccolta da parte dei primi uomini. Ciò che oggi chiamiamo “euforia del corridore” potrebbe anche aver incoraggiato i nostri antenati a collaborare e a condividere il bottino di una caccia, favorendo la sopravvivenza del gruppo.

Nell’epoca moderna, la stessa euforia, raggiunta attraverso la corsa e altra attività fisica, può quindi elevare il nostro umore e facilitare la connessione sociale. Un esempio interessante arriva dalla Tanzania, terra che ospita gli Hadza, una delle ultime tribù esistenti di cacciatori-raccoglitori. Gli Hadza trascorrono gran parte della giornata a cacciare e/o a raccogliere piante: uomini, donne, e anziani praticano almeno due ore di attività fisica moderata al giorno (3). I componenti di questa tribù non solo non mostrano segni di malattie cardiovascolari, così diffuse nelle società industrializzate, ma ciò che è ancora più sorprendente è l’apparente assenza di altre due epidemie moderne: l’ansia e la depressione (4-5).

È impossibile dire se ciò abbia qualcosa a che fare con il loro stile di vita attivo, ma è anche difficile ignorarlo. David Raichlen, antropologo presso la University of Arizona, ipotizzò che le sostanze chimiche prodotte dal cervello durante un’attività prolungata fossero gli endocannabinoidi: le stesse sostanze chimiche mimate dalla cannabis o dalla marijuana. Molti effetti di queste sostanza sono coerenti con le descrizioni dell’euforia indotta dall’esercizio fisico, tra cui: il calo di preoccupazioni o stress, la riduzione del dolore, il rallentamento del tempo e l’amplificazione delle percezioni sensoriali (5).

In una ricerca del 2017 sul funzionamento del sistema endocannabinoide del cervello (6), gli scienziati hanno identificato 3 fattori che lo stimolano in modo significativo: l’intossicazione da cannabis, l’esercizio fisico e la connessione sociale. Gli stati psicologici più fortemente associati a bassi livelli di endocannabinoidi? Ansia e solitudine. Livelli elevati di endocannabinoidi aumentano quindi il piacere che deriva dall’essere vicino ad altre persone e riducono anche l’ansia sociale, che può ostacolare la connessione con l’altro. L’effetto del corridore, quindi, aiuta a creare legami.

È uno strano connubio, quello tra la corsa e il senso di appartenenza. Perché il nostro cervello collega l’attività fisica e la connessione sociale? La biologia dell’euforia del corridore si intreccia con la neurochimica della cooperazione, un legame che ci ha permesso l’evoluzione. L’esercizio fisico aumenta la sensibilità del cervello ai piaceri legati al sistema endocannabinoide, che amplifica non solo l’euforia del corridore, ma anche i piaceri sociali come la cooperazione, la condivisione, consentendo percezioni più spontanee di vicinanza, amicizia e appartenenza nei riguardi dei familiari, degli amici o degli estranei.

Il collegamento tra attività fisica e connessione sociale offre un motivo valido abbastanza per essere attivi durante la nostra quotidianità: se l’ansia e la depressione sono le nostre epidemie moderne, un passo verso la nostra natura ci può portare a una quotidianità più equilibrata e una maggiore soddisfazione della la propria vita (7).

 

REFERENZE

(1) Alexander Bain (1855), “The senses and the intellect, John W. Parker and Son, London.

(2) Scott Dunlap (2005), “Understanding the runner’s high”, 8 gennaio

(3) podcast “Story collider”

(4) Dennis M. Bramble, Daniel E. Lieberman (2004), “Endurance running and the evolution of Homo”, Nature, 432 (7015), 345-352.

(5) Raichlen et al. (2017), “Physical activity patterns and biomarkers of cardiovascular disease risk in hunter-gatherers”, American Journal of Human Biology, 29 (2).

(6) M.P. White et al. (2017) “Natural environments and subjective wellbeing: different types of exposure are associated with different aspects of wellbeing”, health and Place, 45, 77-84.

(7) Jaclyn P. Maher at al. (2014), “Daily satisfaction with life is regulated by both physical activity and sedentary behaviour” Journal of Sport and Exercise Psychology, 36 (2), 166-178.

 

Giada Cananzi

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